La concorrenza sleale via Internet: illecito uso di meta-tag

Oramai consolidata appare la giurisprudenza sulla tutela del domain name che ha visto nel disegno di legge Passigli del 2000 il maldestro tentativo di arginare la pratica di concorrenza sleale di cybersquatting e/o cybergrabbing.

Fortunatamente la tutela del nome a dominio, assimilabile alla tutela riconosciuta al marchio e segno distintivo aziendale, è stata espressamente garantita dal D.Lgs. 10 febbraio 2005, n.30 (Codice della proprietà industriale).

Tuttavia altre condotte anticoncorrenziali si rilevano in Internet, poste in essere col preciso intento di sviare la clientela dall’azienda concorrente.

Trattasi di ipotesi comunemente denominata “metatagging” non disciplinata dalla legge, che tuttavia riconduce alla condotta anticoncorrenziale vietata dalle disposizioni di cui gli artt. 2598 e ss del Codice Civile posti tutela del mercato e della libera concorrenza.

 

I contratti di indicizzazione di un sito web

I meta-tag sono parole-chiave, codificate nel linguaggio html e non immediatamente visibili sulla pagina web (definite anche “etichette nascoste”) che i motori di ricerca e/o directory utilizzano per individuare ed indicizzare (posizionare) i siti presenti sulla rete.

I contratti conclusi tra gli operatori di Internet e le imprese che intendono posizionare i propri siti aziendali hanno ad oggetto per l’appunto la individuazione di parole chiave ed il loro posizionamento nella rete nel chiaro intento di aumentare la visibilità in rete.

Trattasi di contratto assolutamente atipico che si presta facilmente ad erronee interpretazioni ma che mira, indubitabilmente, ad una obbligazione di risultato: obbligo del fornitore è infatti individuare i criteri migliori di indicizzazione onde ottenere un aumento della visibilità. In difetto, si può ritenere la parte inadempiente.

 

Inquadramento della tecnica del metatagging: la giurisprudenza

Una azienda che decida di inserire un meta-tag nella propria pagina web individua e indicizza la parole chiave che consente la migliore visibilità del proprio sito nel world wide web.

La stessa potrà anche inserire dei link nelle proprie pagine web, dovendo previamente richiedere l’autorizzazione al titolare della pagina richiamata (linkata).

Occorre a tal proposito distinguere tra surface linking e deep linking.

Si è in presenza di surface linking quando il link è predisposto per consentire il collegamento del sito di partenza alla home page del sito d’arrivo. La giurisprudenza e la dottrina straniera, innanzitutto, ritengono che la pratica del surface linking sia da considerarsi lecita in base alla teoria della licenza implicita o del fair use defense doctrine.

A sostegno della liceità del surface linking si è giustamente sottolineato che esso è la ragione d’essere di Internet e rappresenta lo strumento indispensabile per accedere al mondo dell’informazione.

Si ha deep linking, invece, quando il collegamento trasmette l’utente direttamente all’interno delle pagine del sito agganciato, omettendo il passaggio dalla relativa home page.

Appare evidente che la pratica del deep linking può facilmente portare alla lesione dei diritti altrui perché la mancata visione della pagina iniziale del sito può impedire o comunque rendere più difficoltosa l’identificazione del legittimo titolare così da indurre i visitatori a ritenere che l’informazione sia offerta direttamente dal proprietario del sito da cui parte il collegamento.

Una variante del deep linking è il cosiddetto framing, che ricorre quando, per effetto del link, le pagine del sito richiamate vengono inserite nella veste grafica del sito di partenza; in particolare, i contenuti del sito a cui ci si collega vengono inseriti in una cornice (frame) propria del sito di partenza, per cui risulta estremamente difficile per l’utente distinguere un collegamento alle pagine interne dello stesso sito, da un collegamento esterno.

Le tecniche del deep linking e del framing rappresentano condotte lesive della concorrenza stante la confondibilità che ne risulta nel richiamo a marchi, segni distintivi e nomi a dominio di aziende concorrenti.

La registrazione infatti in Internet come nome a dominio di un marchio protetto e l’uso di quest’ultimo all’interno di meta tags o di pagine web da parte del non titolare per scopi commerciali e promozionali integrano una condotta illecita che rientra nella ipotesi di concorrenza sleale (ex multis Tribunale Napoli, 28 dicembre 2001, Tribunale di Ancona, ordinanza di urgenza del 24.03.2003).

Costituisce infatti atto di concorrenza sleale l’uso nelle pagine web di meta tags che i motori di ricerca utilizzano per individuare ed indicizzare i siti presenti sulla rete – corrispondenti al nome di impresa concorrente, allo scopo di far comparire, tra i risultati della ricerca dell’utente della rete, il proprio sito e dunque la propria presenza sul mercato grazie alla notorietà raggiunta nel settore dall’impresa concorrente detentrice di una rilevante quota di mercato (Tribunale Roma, 18 gennaio 2001).

La condotta così posta viola l’ art. 2598 del Codice Civile che statuisce:

Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque:

1) Usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi e i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente;

(…)

3) Si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda.

La tecnica del “metatagging” può pertanto sconfinare nell’illecito quando nel meta-tag vengano inserite denominazioni, ragioni sociali e marchi di imprese altrui.

In sintesi la giurisprudenza ritiene che l’uso in mala fede dei meta-tag possa assumere rilievo sotto il profilo della contraffazione del marchio ovvero della concorrenza sleale.

Infatti l’utilizzo del marchio altrui all’interno del meta-tag (utilizzo distorto del meta-tag) potrebbe sviare la clientela del concorrente verso il proprio sito configurandosi un’ipotesi di comportamento anticoncorrenziale sia sotto il profilo dell’attività confusoria sia sotto il profilo dello sfruttamento della notorietà del concorrente.

 

Conclusioni

La giurisprudenza evidenzia come il linking non sia di per sé una pratica illecita, ma possa presentare dei profili di illiceità a seconda della modalità in cui il collegamento viene realizzato. La legittimità del link, quindi, va sempre

valutata nel caso concreto.

In ogni caso è buona norma, per chi intende inserire un link nel proprio sito web, verificare, in primo luogo, la linking policy del sito cui ci si vuole collegare e in ogni caso astenersi dal framing nonché da qualsivoglia espediente che possa confondere l’utente quanto all’origine dei contenuti della pagina web.

 

Contributo inserito nella Newsletter n.7/2008.
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