Marchio “Made in Italy”: un nuovo tentativo per combattere il c.d. italian sounding

Le principali istituzioni italiane, con il Ministero dello Sviluppo Economico da una parte e Confindustria dall’altra, hanno recentemente dichiarato di essere ormai ad uno stato avanzato nello studio di fattibilità per la creazione del marchio collettivo “Made in Italy”.

Come è facile intuire, tale marchio ha la funzione di distinguere chiaramente i prodotti realizzati – o meglio, che hanno ricevuto l’ultima lavorazione sostanziale – in Italia, da quelli simili o similari realizzati all’estero, con l’obbiettivo di garantire l’effettiva provenienza dal Paese e preservare il vantaggio competitivo nel mercato, minacciato sempre di più dal fenomeno dell’italian sounding. Il marchio sarà utilizzabile su base volontaria, vale a dire che saranno le aziende medesime – sulla base di espressi requisiti – a potersene avvalere; non è previsto, dunque, alcun automatismo ovvero obbligo di legge.

Da quanto si apprende, è intenzione dei promotori registrare tale marchio con riferimento a tutti i settori merceologici, non limitando l’ambito di tutela al solo settore delle “tre F” – food&beverage (agroalimentare), furniture (arredamento) e fashion (moda) – tradizionalmente il punto forte dell’export italiano, ma di ampliarne la portata anche in settori comunque caratterizzati dal fattore positivo ”made in” (ad esempio il settore della gioielleria o della meccanica).

Di contro, la valenza di tale marchio sarà verosimilmente limitata alle sole esportazioni di prodotti al di fuori dell’Unione Europea; infatti le stringenti regole del mercato comune non lascerebbero molto spazio ad una tale “discriminazione” in materia di prodotti immessi in commercio. Sul punto, infatti, secondo la risalente pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nel caso C-249/81 “Buy Irish”, e la giurisprudenza da esso derivata, è illegittima qualsiasi attività (posta in essere dagli Stati membri, anche promozionale) volta a favorire i prodotti nazionali rispetto a quelli di altri Paesi Membri.

Tali principi comunitari sono stati in passato un ostacolo insuperabile per iniziative simili, su tutte il fallimento della proposta di legge Reguzzoni-Versace presentata nel 2010, in materia di etichettature per prodotti tessili e calzature, mai arrivata a conclusione dell’iter di approvazione parlamentare.

 

Contributo inserito nella Newsletter n.2/2017.
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