Il lavoratore licenziato perché utilizza i social network in ufficio: si può?

È da molto tempo ormai che il rapporto tra realtà aziendale e nuove tecnologie è di imprescindibile attualità. Abbiamo avuto modo di affrontare il descritto argomento sin dal 2006 perché interseca diverse aspetti anche peculiari dell’ordinamento quali il controllo del lavoratore (aspetto legato al diritto del lavoro), il corretto utilizzo degli strumenti/dotazioni aziendali, la tutela dei dati personali e della privacy oltre che profili di sicurezza informatica e dei sistemi aziendali.

Una recentissima sentenza della Corte di Cassazione (sentenza n.3133/2019 del 01.02.2019) ci dà l’opportunità di ritornare sul punto, aggiungendo un tassello all’evoluzione della materia.

Il caso

Nei fatti, ad una segretaria di uno studio medico di Brescia venivano contestati numerosi e prolungati accessi ai social network oltre che a svariati siti web estranei all’ambito professionali. In dettaglio, le datazioni aziendali avevano registrato durante l’orario di lavoro ben oltre 6 mila accessi nel corso di diciotto mesi di durata del rapporto, di cui circa 4.500 solamente a Facebook.

A fronte della gravità della situazione, il datore di lavoro decideva di licenziare la segretaria per giusta causa (con motivazione disciplinare). Quest’ultima, di contro, ritenendo il licenziamento ritorsivo (e dunque illegittimo) contestava la sanzione.

Le ragioni del datore di lavoro

Il conseguente processo vedeva tuttavia soccombente la lavoratrice: posto che il Tribunale (giudizio di primo grado) e la Corte d’Appello di Brescia (giudizio di secondo grado) confermavano la legittimità del licenziamento, ritenendo che:

  • la condotta della lavoratrice era così grave e contraria “all’etica comune” da far venir meno il vincolo di fiducia tra lavoratore e datore di lavoro;
  • le registrazioni effettuate dai sistemi aziendali (cronologia e durata degli accessi) erano sufficientemente precise da poter costituire materia di prova;
  • l’inserimento di credenziali personali per accedere al social network poteva ricondurre gli accessi inequivocabilmente alla lavoratrice (e non ad eventuali terzi o altri dipendenti).

A fronte della sentenza d’appello sfavorevole, la lavoratrice proponeva ricorso per Cassazione.

Cosa dice la sentenza

Nel ricorso la lavoratrice lamentava l’insufficiente genuinità ed affidabilità delle prove poste alla base delle due precedenti decisioni, oltre ad evidenziare la violazione delle norme in materia di privacy.
In breve, la Corte confermava in toto le decisioni precedenti e, in dettaglio, rispondeva diversamente circa le diverse questioni. Sul primo punto confermava l’idoneità delle prove raccolte a fondare la decisione del giudice, il quale le aveva liberamente analizzate e motivate.
Diversamente, attenendosi al rigore processuale, ometteva di pronunciarsi in merito a presunte violazione della privacy poiché elemento non affrontato nei giudizi di primo e secondo grado.

In conclusione

Nell’insieme la sentenza, seppur rilevante, affronta solamente il tema del controllo del lavoratore e non approfondisce invece i profili legati alla privacy, elemento di estrema importanza in considerazione dell’entrata in vigore del Regolamento UE 679/2016 (il c.d. GDPR).
Ad ogni buon conto, la pronuncia si pone sulla scia dei precedenti giurisprudenziali, che fondavano la bontà delle ragioni dell’Azienda (e, dunque, la legittimità del licenziamento) a fronte della predisposizioni di regole e policy disciplinari.
Opportuno quindi che l’Azienda predisponga la tutela dei propri asset e strutture telematici/informatici con approccio olistico e sguardo d’insieme, nel rispetto delle norme e delle continue evoluzioni della materia.

 

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