Il celebre giocatore di basket Micheal Jordan esce vittorioso da una causa da lui promossa contro una società di sportswear cinese (Qiaodan Sports Co.), che aveva registrato come proprio marchio il nome del famoso sportivo traslitterato in mandarino.
Non solo: la società, presente in tutto il Paese tramite una rete di migliaia di punti vendita, applicava ai capi d’abbigliamento il numero “23”, caratteristico della maglia di Jordan, tale da far presumere che ci fosse un legame tra il brand d’abbigliamento ed il cestista. La vicenda trae origine dalla contestazione mossa dal campione americano all’Amministrazione statale per il Commercio e l’Industria della Repubblica popolare cinese, volto all’annullamento della registrazione di detto marchio. Nel 2015, dopo che tale domanda è stata respinta per ben due volte, Mr. Jordan ha dato inizio ad una causa civile, giunta sino alla Corte Suprema nel gennaio 2016, che ha infine accolto il reclamo.
Tale pronuncia si pone nel solco di un recente orientamento. Nel 2011 infatti la Corte di Shangai aveva accolto le istanze del gruppo Ariston, condannando l’azienda cinese Foshan Shunde Arizhu Electric Appliance Co. Ltd., produttrice di elettrodomestici. Ariston lamentava la contraffazione del proprio marchio, in ragione del deposito da parte di Foshan di un marchio del tutto analogo, indicato poi nei propri prodotti, nel proprio sito web, sugli imballaggi e sul materiale pubblicitario. Ariston censurava altresì una condotta di concorrenza sleale evidenziando anche l’utilizzo di un sito web con nome a dominio ”Arisitun”, chiaramente decettivo e confusorio.
Ma possiamo stare tranquilli? La tutela della proprietà intellettuale in Cina è ancora ben distante dagli standard occidentali. In questo senso, infatti, solo nel 2016, la Corte municipale di Pechino ha respinto le pretese del colosso mondiale Apple nei confronti di una azienda di pelletteria cinese (Xintong Tiandi Technology), che nel 2007 aveva registrato come proprio il marchio IPHONE (tutto in caratteri maiuscoli). Alla base della motivazioni della Corte, la constatazione che Apple non sia stata in grado di provare che prima del 2007 in Cina il brand l’iPhone fosse generalmente conosciuto tra i consumatori, e dunque tutelabile anche a prescindere da una registrazione nazionale.
Contributo inserito nella Newsletter n.4/2017.
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